Ho visto tanti gatti senza sorriso, ma un sorriso senza gatto mai

Gioia

Ho desiderato questa meraviglia per almeno un anno. Mi sono informata, ho guardato, ho ponderato, ho cercato, ho sognato. E ora…

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Considerazioni

A me non fanno paura gli islamici. Non mi fanno paura quelli che arrivano, non mi fanno paura i cambiamenti. Non mi fanno paura nemmeno i terroristi.

A me fa paura la cosiddetta gente normale. Quelli che “godo quando i barconi affondano e annegano” e che “bisogna ammazzare tutti” e che “sono tutti delle merde subumane”. Mi fanno paura perché in loro vedo la totale assenza di un cervello pensante che vada oltre l’istinto rettile di mera conservazione a dispetto di tutto il resto.

Mi fanno paura perché sono sciocchi, ottusi e manipolabili e mentre gridano al complotto sono essi stessi inconsapevoli strumenti di quelle forze che detestano.

Mi fanno paura perché se una guerra ci sarà, sarà per la loro colpa massima: essersi resi schiavi dei loro stessi slogan a tal punto da offrirsi come baluardi di giovani petti (cit.) per contrastare chissà quale terribile minaccia.

Io non voglio vivere così. Mi rifiuto di sentirmi impaurita e soffocata e schiava di altrui pensieri sconnessi. Vivo la mia vita come l’ho sempre vissuta: tranquillamente e serenamente. Perché è così che la voglio, che l’ho cercata e l’ho costruita.

 

Io non sono la più facile degli individui ma sono estremamente lineare. Come diceva non ricordo chi sono una persona complicata che vive in modo molto semplice. Sono coerente, sono trasparente, sono schietta nella stessa misura in cui sono intransigente, sono testarda, sono fumantina.

Non sopporto, per esempio, chi si proclama portatore di libertà indiscussa e poi si nasconde dietro alla moderazione per non avere a che fare con idee diverse dalle sue. Ancora, non sopporto che questi stessi autoproclamatisi campioni delle libertà sostengano di essere gli unici depositari del verbo. Ed è chiaro: se uno è la stessa incarnazione della verità ovvio che tranci con la scure il resto.

Detesto anche che si pretenda di conoscermi e di sapere della mia vita, che la si guardi con la pietosa accondiscenza che si potrebbe riservare ad malato grave o che le si attacchino addosso etichette stereotipate e stantie. La mia vita è quella che mi sono costruita, come volevo io e come va bene a me. E la amo così come sta perché è quello che sono, che voglio e che spero.

Trovo insopportabile che si vogliano i privilegi e le comodità del vivere in una società senza però pagare il misero prezzo dell’accordarsi nel limitare se stessi. E che contemporaneamente si gridi allo scandalo quando gli altri (sempre e solo gli altri) fanno lo stesso.

Mi fanno imbestialire l’incoerenza e tutti quelli che proclamano a loro giustificazione che “solo un cretino non cambia idea” come se le due cose avessero un nesso. Come se il cambiare le carte in tavola a proprio piacimento e beneficio fosse sinonimo di brillantezza e apertura di pensiero.

Ottengo orticaria per l’ignorante arroganza dell’egocentrismo che nega i desideri ed i bisogni di tutti quelli che non sono contenuti nella sfera di intoccabilitá in cui o più si avvolgono.

Sono inferociti, stanca e stufa.

Mancava

Ora, io non bestemmio per un sacco di diversi motivi, ma ho finito le imprecazioni.
Mia madre si è rotta 3 vertebre. Il che significa che sono 10 giorni che sono a casa sua, in una città diversa da quella in cui vivo, con ritmi che non sono miei, senza mio marito, il mio gatto, le mie cose.
È da maggio dello scorso anno che non c’è un attimo di tregua.
Semplicemente non ne posso più.

Oggi

Oggi sono 3 mesi, ed io sono stordita come lo ero quel giorno.
Semplicemente, non ci voglio stare senza di te. Mille volte al giorno mi viene in mente qualcosa da raccontarti, o un consiglio da chiederti, o anche il desiderio di una coccola come me la facevi tu arruffandomi i capelli.
Ti rivoglio qui con me e basta. Non mi interessa niente del fatto che il mondo gira e la vita va avanti. Ti rivoglio qui con me e basta.
Mi manchi Lo so che è tanto egoista questa cosa, ma mi manchi tanto. Ti rivoglio qui con me e basta.

Ciao papà.

Pare, oggi 25 aprile, che il mondo si possa dividere in buoni e cattivi. Da una parte gli eroi partigiani, senza macchia e senza paura, dall’altra gli sporchi fascisti, macellai senza appello.
Io non ce la faccio. Non ce la faccio a condividere il pensiero nè il giubilo per una festa che francamente trovo a dir poco imbarazzante. Sarà la mia provenienza geografica, saranno le esperienze di famiglia, sarà il tempo ancora troppo breve che è trascorso, ma a me questa festa risulta proprio indigesta. O per meglio dire mi risulta indigesto il codazzo di ideologia e proclami che la accompagnano, perchè, se non ho alcun problema a capire la gioia per la fine di una dittatura, non riesco proprio ad accettare l’apologia del suo contrario.
Voglio dire, di partigiani ne ho conosciuti diversi: viviamo in un periodo e in una zona dove non è difficile incontrarne di viventi che possono raccontare le loro esperienze. Ecco, la maggior parte mi dice che essere partigiano era per lui un modo come un altro per stare ben pasciuti nelle malghe, a fare il meno possibile a spese altrui. Ma se anche così non fosse, non riesco a condividere il sistema utilizzato, la guerriglia, il nascondersi, le azioni mordi e fuggi le cui responsabilità non eran prese da chi le portava avanti, ma dalla popolazione. Contadini, allevatori, artigiani, gente comune insomma, che si trovava stretta tra la minaccia fascista/nazista (Se non ci dite chi è stato vi ammazziamo) e quella partigiana (Se dite che siamo stati noi vi ammazziamo).
Dalla casa dove sono nata e cresciuta ci vogliono 20 minuti in macchina per arrivare alla Foiba di Basovizza. E’ pieno di ossa lì sotto, di chiunque: partigiani come tedeschi. Tanti tedeschi, che non erano nè meglio nè peggio dei cosiddetti liberatori. La follia di quegli anni ha portato a tombe senza nome, nel ventre del Carso, ragazzi in divisa accanto ad altri autoproclamatisi dententori della verità assoluta.
Ma oggi, 25 aprile, si canta Bella Ciao, come se lì sotto ci fossero solo eroi della patria, senza una colpa, con un passato immacolato, principi azzurri sui quali piangere in esclusiva.
A questo mi ribello fortemente e non partecipo a festeggiamenti, nè reali nè emotivi. Anzi.

Ci siamo di nuovo

Oggi è il mio compleanno. Fanno 37. (ma, diciamolo piano, non me ne danno mai più di una trentina)
Devo dire, ben vissuti. Tanete esperienze belle, sicuramente la maggior parte, alcune veramente toste da accettare e superare, ma indubbiamente formative, altre discutibili ma “normali”.
E insomma, mi piaccio: ci è voluto un bel cammino per arrivare a dire questo, ci sono voluti anni di pensieri e riflessioni, e dolori e gioie e amici e separazioni e ancora tanto altro. Guardo il mondo con quella parte di ingenuità mutuata dall’infanzia, ma contemporaneamente con la consapevolezza del qui e dell’ora (anche se sempre più spesso sono una voce fuori dal coro, noiosissimo). Cerco i lati postivi di tutto quello che mi accade attorno, esercizio positivissimo che aiuta a vivere con una serenità che riempie il cuore e scalda anche nelle più nere avversità (e per alcuni versi ora ci siamo in mezzo purtroppo).
Non credo che la felicità sia cosa terrena, se non in momenti puntuali e passeggeri, ma la gioia sì: ecco, sono una persona gioiosa. E intendo rimanerlo!

Calcoli

E siccome il periodo è quello che è, sono la fortunata vincitrice di calcoli biliari, che mi hanno portato ad avere due coliche alla distanza di una settimana una dall’altra e che mi han fatto trascorrere qualche ora in pronto soccorso ieri.
Esame del sangue, elettrocardiogramma, ecografia, flebo… e insomma, ho i calcoli. Pare che dovrò toglierli.
Niente di grave, ma è fastidioso parecchio.

Come si fa far passare minuto dopo minuto quando ti hanno appena detto che a tuo padre è tornato un terzo tumore in meno di un anno, che non è operabile, che si fa chemio finchè si può?
Cosa si pensa, cosa si dice, cosa si fa?
Come ci si prepara a quello che non si può evitare?

Ore 7.30: mi alzo, dopo ben 5 ore di dormita frammentaria e per niente riposante. Ho sonno, il mal di testa con il quale sono andata a letto è ancora qui che se la spassa allegramente a suonarmi tamburi nelle tempie. Fingo di nulla e scendo le scale. Il gatto, che di solito continua a dormire serafico e fa di tutto per non uscire dalla stanza, oggi ha deciso che sfrecciarmi tra le gambe è un sacco divertente. Nemmeno l’adrenalia per la caduta evitata per un pelo ha il potere di svegliarmi. Mi lavo e mi vesto non so neanche io come, ma in qualche modo faccio. Trovo anche la forza per pettinarmi.
Ore 8.00: salgo in macchina, per quei 20 minuti di strada che mi portano alla stazione autocorriere. I sedili morbidi invitano ad un sonnellino, ma al marito, che guida, non piace essere l’unico sveglio. Mi sforzo di far conversazione.
Ore 8.30: decido che ho bisogno di dolcezza e che mi merito di far colazione al bar. Mi dimentico che in quel preciso bar fanno il caffè più amaro che la storia del mondo ricordi. Praticamente una punizione per il lusso che mi son concessa. Almeno sto al caldo, vista la brezzolina gelida che tira fuori da lì.
Ore 9.00: saluto il marito che procede per la sua strada e attendo il pullman. A dire il vero attendo l’autista, perchè il pullman c’è sulla banchina, rigorosamente chiuso. Scorgo il conducente che se la chiacchiera allegramente con un suo collega di altra compagnia mentre noi pendolari rimaniamo intirizziti ad aspettarlo.
Ore 9.13: evidentemente 3 minuti di ritardo sono sufficienti. O forse gli è giunta eco degli improperi e delle maledizioni che gli stiam lanciando, perchè, finalmente, l’autista sale, si sistema, si toglie il maglionicino che piega ordinatamente, sposta la borsa, traffica con il navigatore e poi, con tutta la calma serafica di questo mondo, apre le porte. Saliamo, e non ho neanche la forza per guardarlo male.
Ore 9.30: realizzo che l’autista è serafico anche nel guidare. Va a 30 all’ora su una statale trafficata, con nessuno davanti ed una fila interminabile dietro. Ma lui è tranquillo, con la sua camicina a maniche corte, fiero dei 25 gradi minimi che ci sono sulla corriera e che aumentano esponenzialmente la mia nausea da mal di pullman.
Ore 10.12: in qualche modo arriviamo. Corro a prendere l’autobus che prendo per un soffio.
Ore 10.45: sono in ufficio.
Ore 11.30: prima incazzatura.
Ore 12.00: seconda incazzatura.
Ore 14.30: comincia il viavai di persone che voglion tutte qualcosa contemporaneamente. Il mal di testa e le incazzature si moltiplicano e crescono con progressione geometrica. Respiro zen, e vado avanti, tanto manca poco.
Ore 17.00: in stazione autorriere aspetto la mia per tornare a casa. Mi guardo attorno e realizzo che il panorama agghiacciante non è cambiato dall’ultima volta. E’ l’ora degli studenti che han finito i rientri. Quello più sobrio accosta almeno 5 colori diversi, tutti dissonanti. La moda del momento per i ragazzi prevede jeans modello “me la sono fatta addosso” strettissimo sulla gamba, arrotolato fitto sul fondo in modo da scoprire almeno 10 cm di caviglia, portato con polacchine che probabilmente costeranno un occhio ma che a me fanno tanto l’effetto Oliver Twist. Le femmine invece preferiscono sfoggiare capi che troverei eccessivi anche su trentenni che lavorino in night clubs e trucco alla Moira Orfei in acido. E tutti insieme parlano parlano parlano, ridono ridono ridono, urlano urlano urlano, si picchiano, si buttano reciprocamente in mezzo alla strada mentre passano gli autobus e altre amenità varie ed eventuali. Mi domando come facciano ad esser ancora vivi, accantono con un’alzata di spalle e mi tuffo a leggere il mio libro.
Ore 17.05: si libera un posto su una panchina. Mi accomodo accanto a delle ragazze, avran 15 anni, di cui, visto il volume della conversazione, non posso fare a meno di sentire i discorsi che vertono principalmente su presunti morosi più che ventenni. Mi faccio i casi miei, cercando di non venir soffocata dal fumo delle sigarette che si accendono, letteralmente, con il mozzicone di quelle precedenti. Fumano che sembrano ciminiere di un alto forno. Ad un certo punto una sbotta, guardandone un’altra: “Hai la gomma da masticare? No, perchè altrimenti se fumi con la gomma ti viene il tumore alla lingua”. Non ce la faccio, e scoppio a ridere. Mi guardano malissimo, io ho le lacrime agli occhi e mi reggo la pancia perchè dal tanto ridere mi fan male gli addominali. Hanno il buon senso di non dire niente, mentre annaspo alla ricerca di ossigeno. Intanto arriva il pullman.
Ore 17.30: Sembra una carica di fanteria, spalla contro spalla ci si spintona per accaparrarsi un posto. La prima fila, l’unica che mi permette un minimo di tregua dalla nausea, viene occupata in tempo zero, mi sento già fortunata a trovare un sedile libero qualche fila indietro. L’odore che si sviluppa in quei pochi metri quadri non è descrivibile, non riesco ad immaginare niente che possa produrlo, eppure c’è ed è impossibile non notarlo. Cerco di pensare ad altro, mentre dalle ultime file salgono le urla dei sedicenni. Ragliano belando ochescamente, e penso che sarebbe proprio interessante fare uno studio su di loro per capire, fisiologicamente, come ci riescono. Finchè non parte da un cellulare, a loop e con un volume da sordità congenita, l’ultimo singolo di Miley Cyrus, quello dove lei, nuda su una palla da demolizione copula con la catena che la regge e, non paga, lecca appassionata la mazzetta da 10 kg. E cantano, per mezz’ora, ininterrottamente, ridacchiando, lanciandosi le cose, imprecando e dicendo cose che avrebbero fatto arrossime Moana Pozzi. Mi salva dalla galera solo che non ho con me un AK47.
Ore 19.00: In qualche modo sono a casa, ed la giornata è conclusa. Grazie al cielo.